Sentirsi eredi e rivali della città eterna
L’arte pisana dell’XI e XII secolo richiama ed arricchisce
la grande tradizione classica, specialmente nella scultura e nell’architettura. La storia narrata nel marmo e nel bronzo.
A Pisa va riconosciuto il merito di avere dato un contributo fondamentale sia ad una peculiare interpretazione di quella che Vasari definiva la “maniera greca”, cioè bizantina, sia, soprattutto in scultura, alla creazione della nuova “maniera latina”: è un percorso lungo e complesso che trova le sue radici nella storia stessa della città lanciata alla conquista del Mediterraneo e nel formarsi, tra XI e XII secolo, di una romanitas pisana. In questi anni infatti Pisa dimostra, con la sua scultura, con la sue architetture e con i suoi carmi, anche direttamente incisi sulla superficie marmorea della cattedrale, di sentirsi erede di Roma: con essa anzi rivaleggia, lei vincitrice degli arabi come Roma lo fu dei Cartaginesi, riconoscendosi in un passato che vive come presente. Lo provano le opere (architravi e capitelli, formelle e transenne scolpite su modelli classici alternati ad elementi estratti dalle rovine stesse dell’antica capitale), lo attestano i documenti, lo conclamano i sarcofagi di età romana reimpiegati come sepoltura per cittadini illustri – un fenomeno invero non solo pisano, ma a Pisa più notevole che altrove per frequenza e impatto. E se, accanto a questi simboli, la Cattedrale innalzava anche le spoglie delle vittorie sugli infedeli (ma con questi manteneva pacifici traffici, come attestano gli oltre 600 bacini ceramici islamici che decorano le sue chiese) e ne reinterpretava le forme architettoniche e scultoree, è comunque la linea dell’interesse per l’antichità classica che sta alla base degli ulteriori sviluppi della scultura pisana. Rinasce infatti a Pisa, con Guglielmo e con Bonanno, la storia narrata nel marmo e nel bronzo. Al primo, che orgogliosamente firmava il primo pulpito realizzato per la Cattedrale tra il 1158 e il 1162 (ora conservato nel Duomo di Cagliari), si deve infatti la ricomparsa della narrazione e della scultura a tutto tondo, subito riproposte in numerose chiese cittadine e del contado, e dal secondo declinate, nei battenti bronzei della cattedrale, con la conoscenza delle fonti bizantine – la stessa che ritroviamo nella scultura e nella pittura pisana del filone così detto neoellenico: colonne fogliate, architravi, bassorilievi che vanno a decorare le facciate delle chiese, ma anche icone e croci dipinte. Né poteva essere diversamente dal momento che, dopo la partecipazione alla prima crociata (1096-1099), Pisa trovò nuovi sbocchi commerciali nel rapporto privilegiato con Bisanzio, riconosciuto nell’eccezionale onore di vedere un proprio arcivescovo e capo politico elevato a patriarca del regno crociato di Gerusalemme, e ribadito nei vantaggiosi trattati sanciti tra il 1111 e il 1180.
Il mirabile equilibrio raggiunto dalla pittura pisana è però messo in crisi dalla radicale rivoluzione che viene a premere sul mondo cristiano: la predicazione di Francesco d’Assisi. Il suo ricondurre, con inaudita forza, il fuoco dell’attenzione sul Cristo, la nuova tecnica devozionale che invitava a pregare “con la mente e non con le labbra”, usando anzitutto il liber Crucis Christi, portava ad una altrettanto radicale innovazione nelle arti figurative. E sarà il pisano Giunta ad essere chiamato a rappresentare (1236), anche per la nuova basilica di Assisi, il nuovo Cristo sofferente, con il corpo inarcato negli spasimi dell’agonia. In questa rinnovata liturgia della croce trovano spiegazioni le grandi e complesse Deposizioni scolpite in legno: la più antica era forse quella che dominava nell’abside della Cattedrale (ne rimane solo il Cristo, ora nel Museo dell’Opera); alla prima metà del Duecento sono attribuite quella, che conta ancora sette personaggi, conservata nella bella pieve di Vicopisano, quella di Volterra, dalla preziosa e intatta policromia, quella di San Miniato, recentemente recuperata da un attento restauro. Ma intanto a Pisa era accaduto qualcosa che avrebbe inciso sul destino della scultura italiana: attorno al 1260 vi si stabilisce (tanto che si definisce egli stesso pisano) un geniale scultore, originario della Puglia e cresciuto alla corte di Federico II, Nicola. A lui, ai primi tra tutti i suoi allievi, il figlio Giovanni e Arnolfo di Cambio, e agli allievi di questi si deve la rifondazione della scultura: il definitivo abbandono della maniera bizantina, nel solco della rinnovata romanitas del secolo precedente. Per dare il senso del cambiamento introdotto da Nicola è stato più volte fatto il nome di Dante: e non solo perché si può dire che con lui nasce la nuova lingua romanza nelle arti figurative, ma anche perché il complesso concatenarsi tra elemento singolo e struttura, la continua presenza di un tono poetico unificante, fanno delle sue creazioni un vero “poema sacro”. Nella nuova lingua di Nicola la ripresa dell’antico non sta solo nella conoscenza e nella citazione delle forme, ma nella ritrovata attenzione al dato naturale, nella capacità di adattare il ritmo della narrazione alla situazione.
A Pisa i due scultori-architetti, Nicola e Giovanni Pisano, lasciarono anzitutto i due pulpiti, del Battistero e della Cattedrale, ma ebbero anche la responsabilità di proseguire la fabbrica del Battistero nel secondo ordine, ricco di busti e di danzanti figure. A Giovanni, al suo collega Tino di Camaino e ai loro collaboratori vennero affidati anche gruppi scultorei, altari, sepolcri e tabernacoli per la cattedrale, per il Camposanto, per la chiesa della Spina e per S. Michele in Borgo. E da Pisa partono scultori e opere per la Catalogna come per la Lombardia; da Pisa parte Tino di Camaino, per continuare la sua opera a Siena e soprattutto a Napoli, mentre Arnolfo da Cambio insedia stabilmente il nuovo linguaggio a Firenze e Roma. Né tutti questi scultori si limitavano a creare in marmo: sempre più numerose emergono da attenti restauri le loro sculture lignee, mentre le argentee placchette della “cintola” (un fascia con cui si cingeva la Cattedrale nei giorni di gran festa) ne attestano la capacità di orafi.
Intanto, a Firenze nasce e si consolida, non senza guardare alla scultura dei pisani, la nuova pittura di Giotto, così come da Siena si diffonde la nuova lingua di Simone Martini. Anche a Pisa, dove del resto lasciarono importanti opere, entrambi trovano subito validissimi interpreti, ma la vera risposta alle loro innovazioni viene ancora una volta da uno scultore, Andrea Pisano. Lo si constata guardando le sue opere pisane nel Museo di San Matteo, in dialogante e serrato confronto con il polittico di Simone Martini e la Madonna dell’altro senese Agostino di Giovanni, come in quelle che ha lasciato, conteso com’era dai cantieri delle maggiori cattedrali, a Firenze o Orvieto. Andrea vi esplora il mondo fisico e sentimentale dell’uomo, costruendo euritmie lineari, semplificati e luminosi volumi che rendono indimenticabili le sue creazioni. Il figlio Nino ne accentua in senso affabile e cordiale il realismo profano, in una gara di sottigliezze con i più raffinati maestri d’Oltralpe che spesso egli vince sia nel polito marmo sia nel più morbido legno. Come il padre, egli padroneggiò infatti entrambi i materiali, ed è proprio nella scultura lignea che Nino trova il suo più grande continuatore, Francesco di Valdambrino.
Con lui, ormai alle soglie del Quattrocento, il tempo sembra fermarsi per Pisa: neppure il rivoluzionario polittico realizzato da Masaccio per la chiesa del Carmine nel 1426 riesce a scalfire il sonnolento ambiente locale, non aiutato nel risveglio dalla crisi seguita alla prima conquista fiorentina avvenuta nel 1406. Quasi stordita dalle sue disgrazie, Pisa si ritrae dalle correnti più avanzate e si rivolge nel secondo Quattrocento ad artisti di buon livello ma non certo rivoluzionari, per attestarsi poi su un equilibrato gusto per la semplificata eleganza e didascalica evidenza. La nuova stagione di generosa attenzione dei n
uovi Signori al benessere della città conquistata (o, per meglio dire, la decisione di migliorare l’economia dello Stato favorendo le potenzialità di una città ormai non più riottosa) le regala nella seconda metà del Cinquecento uno dei testi cardine della politica figurativa medicea – quella Piazza dei Cavalieri minutamente progettata nello spazio, nei palazzi, nella chiesa, da Vasari e dallo stesso Cosimo.
Solo con la decisione di Pietro Leopoldo di fare di Pisa la seconda sede della sua corte, la città si avvia ad una vocazione cosmopolita, in un’orgia di sovreccitazione decorativa, di lusso, di eleganza che favorisce sia l’ascesa di nuovi astri locali – i Melani, i Tempesti che coprono di illusionistiche decorazioni palazzi privati e pubblici, chiese e abbazie – sia l’arrivo del fior fiore della pittura italiana del Settecento, chiamata all’ambizioso progetto di rinverdire le antiche glorie pisane (i guerrieri, i Santi, i Beati) sulle enormi tele che vanno a foderare le pareti della cattedrale.
Resta tuttavia sensibile l’aura di decadenza rispetto all’eroico passato, ma questo non fa che accrescere il fascino della città e del suo Camposanto, divenutone una delle principali glorie per la fantastica alternanza di mito, favola e natura che si riconosceva nei suoi affreschi e nella sua atmosfera. Da Pisa passano nel XIX secolo i più bei nomi della letteratura, dell’arte, della filosofia: vi passano e vi soggiornano a lungo, attratti, come Leopardi, da quel romantico “misto di città grande e piccola, di cittadino e di villereccio”, o dalla muta testimonianza di un tempo trascorso inesorabilmente, come quel viaggiatore francese che la vide “quartiere deserto di una grande città dell’Oriente”. Oggi forse la solitudine umbratile da “città del silenzio” ha lasciato il posto ad una fitta frequentazione, ma chi sappia scegliere ora e luoghi potrà rivivere, come i poeti dell’Ottocento, l’esotica e gloriosa Pisa medievale.
Clara Baracchini, Direttore Beni Storico Artistici Soprintendenza di Pisa